La sindrome di Pippo Baudo - Letterina #03
Questioni di scouting, problemi di traduzione e consigli di lettura
Ciao,
mese nuovo, quindi anche nuova letterina di Tradurama. Dentro ci sono:
· un problema di traduzione
· un consiglio di lettura
· un reminder sul Tradurama FEAT. Gioia Guerzoni
Ma andiamo con ordine.
La sindrome di Pippo Baudo
Ho 99 problemi e la sindrome di Pippo Baudo è tra quelli (semicit. – anche se secondo me è da boomer scrivere semicit. tra parentesi, ma vabbè).
Cos’è la sindrome di Pippo Baudo? È la convinzione di essere un talent scout senza eguali. E non me ne voglia Nori, ma il buon Mike non c’entra niente. “L’ho inventato io!” appartiene a Pippo.
Comunque sia, dicevo che soffro della sindrome di Pippo Baudo, soprattutto se ci sono di mezzo ambiti che mi stanno particolarmente a cuore: certi sport, la musica, e i libri. Nel mio caso, però, non si tratta di inventare, ma più semplicemente e banalmente di scoprire. E sì, mi è capitato molte (troppe) volte di dire: “L’ho scoperto io!” con un misto di orgoglio (quanto ci vedo lungo) e una punta di spocchia (polli voi che ve ne siete accorti solo ora).
Il traduttore scout
Mi definisco spesso una traduttrice fortunata perché, soprattutto negli ultimi tempi, mi è capitato di tradurre libri molto belli e molto amati. E alcuni di quei libri molto belli e molto amati, in un certo senso, li ho scoperti io. In questo momento, per esempio, mi accingo a tradurre il romanzo più bello che ho letto l’anno scorso, per il semplice fatto che – vedi la fortuna, alle volte – quando l’ho finito, pensando: Oddio, questa è roba mia!, ho saputo quale CE italiana aveva appena comprato i diritti e, con la faccia di bronzo che mi è propria, mi sono candidata. In passato mi è successa la stessa cosa con altri libri, per esempio con I ragazzi addormentati di Anthony Passeron e con Le nostre mogli negli abissi di Julia Armfield. In altri casi, invece, non mi è andata altrettanto bene. Ma com’è che si dice? Nella vita, ogni tanto si vince e ogni tanto si impara (o si rosica, che mi sembra più aderente al vero).
Sia chiaro, non mi sono inventata niente, perché la figura del traduttore scout è vecchia se non quanto il mondo almeno quanto l’editoria (penso a Fernanda Pivano, ma non solo). Non a caso, agli aspiranti traduttori viene spesso suggerito di farsi notare dalle CE attraverso le proposte di traduzione. Ottimo consiglio. Peccato solo che tra il proporre e il firmare (un contratto), spesso, c’è di mezzo il mare, un mare vasto, profondo e talvolta anche assai agitato.
Leggenda metropolitana o realtà?
In questi giorni, sto tenendo un modulo sullo scouting e sulle proposte di traduzione per il corso Professione: Traduttore organizzato da Belleville (io tengo il modulo per i corsisti dal francese e Gioia Guerzoni – che pure lei ne ha scoperti, di libri – tiene quello per i corsisti dall’inglese). Una delle prime cose che ho detto, in apertura della prima lezione, è stata: Occhio, le percentuali di riuscita sono bassissime, ma questo non significa che non dobbiate fare proposte di traduzione come se non ci fosse un domani, semmai il contrario. Perché è bello raccontare le storie a lieto fine, ma l’HD di un traduttore scout è un fondale marino pieno dei relitti delle proposte di traduzione naufragate. D’altro canto, anche una proposta non andata a buon fine può dare soddisfazioni: magari il libro non piace o non è considerato in linea col catalogo o semplicemente sembra poco vendibile, ma se la traduzione è valida, è assai probabile che alla proposta segua una controproposta (es.: Guarda, quel libro anche no, ma avremmo quest’altro e ci chiedevamo se ti andrebbe di tradurlo). È un lavoraccio, peraltro non retribuito (e sapete come la penso sul lavorare gratis), ma continuo a credere che sia davvero (e ancora) il modo migliore per farsi notare dalle CE.
Un problema di traduzione
Leggendo Orbital, ho pensato a Le nostre mogli negli abissi di Julia Armfield, nello specifico alle parti del romanzo narrate da Leah, che si svolgono all’interno di un sottomarino inabissato. Tra l’altro, questo è un romanzo che, in un certo senso, “ho scoperto io”, perciò ho deciso di pescare da lì il problema di traduzione di questa letterina.
La traduzione è un campo minato. Spesso ci imbattiamo in passaggi in apparenza molto semplici che, però, nascondono diverse insidie.
Prendiamo questa frase:
The deep sea is a haunted house: a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.
Non ha nulla di complicato, si capisce, non occorre nemmeno aprire un dizionario. E l’istinto potrebbe portarci a inserire il pilota automatico e a tradurre in modalità versione di latino. In quel caso, otterremmo qualcosa del genere:
Il mare profondo è una casa stregata: un posto in cui cose che non dovrebbero esistere si muovono nell’oscurità.
Ma questa traduzione non va bene: è pigra, sciatta, appiattisce alcune sfumature.
Proviamo a scomporre la frase, ad analizzarla nel dettaglio.
Scegliere di tradurre deep sea con mare profondo è cedere alla pigrizia. Quel deep sea, per me, è altro: sono le profondità marine o, ancora meglio, gli abissi marini.
E dunque: gli abissi marini sono una casa stregata?
Mi disturba il brusco passaggio dal plurale (gli abissi marini) al singolare (una casa stregata). In inglese, ricordiamocelo, era tutto al singolare, ma noi abbiamo trasformato deep sea in abissi marini. Perciò, secondo me, dovremmo continuare con il plurale:
Gli abissi marini sono case infestate:
Suona meglio no? Case stregate o case infestate sono più o meno equivalenti ma – e questa è una considerazione puramente soggettiva – le case stregate mi fanno pensare alle attrazioni dei parchi dei divertimenti, mentre le case infestate mi inquietano di più.
Ora passiamo alla seconda parte:
a place in which things that ought not to exist move about in the darkness.
Visto il ragionamento che abbiamo appena fatto, non un posto nel quale ma posti nei quali, dunque rimanendo ancora fedeli a quel plurale. Ma nei quali suona un po’ antiquato, formale, come in cui, perciò preferirei: posti dove.
E ancora: cose non dovrebbero esistere, giusto? Sicuramente things è cose – non creature o simili. E non c’è alcun motivo valido per intervenire e cambiare, peccando di hybris creativa. D’altro canto, la presenza di ought not to, e non di un più ordinario should not, mi fa drizzare le antenne. E mi spinge a trovare un modo per dargli risalto, perciò: cose che non dovrebbero nemmeno esistere.
Cosa fanno quelle cose che non dovrebbero neppure esistere? Si muovono nell’oscurità? Ni. Non abbiamo un semplice move ma un move about (che potrebbe essere anche un move around), dunque un bel phrasal verb – croce e delizia di qualsiasi traduttore. About, ovviamente, modifica il senso di move: connota quel movimento, lo caratterizza. Perciò quelle cose si aggirano nell’oscurità.
Proviamo a tirare le somme:
Gli abissi marini sono case infestate: luoghi dove cose che non dovrebbero nemmeno esistere si aggirano nell’oscurità.
Non è l’unica né, probabilmente, la migliore traduzione possibile. Ma è corretta e abbastanza fedele, dunque legittima.
Certo, cose e case così vicini disturbano un po’ il mio orecchio sensibile a ripetizioni, allitterazioni e cacofonie varie, ma – per fortuna o purtroppo – tradurre vuol dire anche accettare di scendere a compromessi, di tanto in tanto.
[Il brano è tratto da Le nostre mogli negli abissi di Julia Armfield, pubblicato da Bompiani.]
Un consiglio di lettura
Febbraio è il mese più crudele (scusa T.S. se ti contraddico). Questo febbraio, poi, per me è stato proprio infame. Su molti fronti, incluso quello delle letture. Libri belli, dove siete? Un titolo da consigliarvi, però, ce l’ho. Evviva.
Shy di Max Porter (tradotto da Federica Aceto per Sellerio)
Di Max Porter avevo già letto il bellissimo Il dolore è una cosa con le piume (tradotto da Silvia Piraccini per Guanda) e ho in programma da tempo di recuperare Lanny (tradotto da Marco Rossari per Sellerio). Nel frattempo ho letto Shy (tradotto da Federica Aceto, ancora per Sellerio). Tra parentesi, se non lo avesse tradotto Federica (della quale, come si suol dire, leggerei anche la lista della spesa) lo avrei letto prima, in inglese, senza aspettare l’uscita della traduzione italiana.
Insomma, come avrete intuito, Max Porter mi piace. Mi piace perché è un autore sperimentale che non cede mai alla tentazione del guarda mamma, senza mani! Nel senso che, nei suoi libri, la sperimentazione non è fine a se stessa, non è pura forma, esercizio (e sfoggio) di stile, ma si fa sostanza, ed è sempre funzionale al contenuto.
Shy, come gli altri romanzi di Max Porter, è un libro tanto breve quanto denso. Ed è una storia di adolescenza e marginalità (ebbene sì, ho un debole per la combo adolescenza e marginalità) che trasuda potentissime vibes Novanta (ebbene sì, sono stata adolescente negli anni Novanta, quindi questa cosa tocca corde sensibilissime).
Spoiler: quasi certamente, ad aprile ci sarà un Tradurama FEAT. Federica Aceto per parlare poprio di Shy. Stay tuned!
Tradurama FEAT. Gioia Guerzoni
Il 14/03 alle 19h Gioia Guerzoni (traduttrice, tra gli altri, di Deborah Levy e Ottessa Moshfegh) ci parlerà di Orbital di Samantha Harvey, che ha tradotto per NN.
Per info e iscrizioni (i posti sono limitati, il costo è 5€): feat@tradurama.it
Buone letture e al mese prossimo con una nuova letterina!