A proposito di soldi - Letterina #02
Nessun consiglio di lettura (e un rant), un problema di traduzione (che forse non è un problema), un reminder su Tradurama FEAT.
Ciao,
finalmente gennaio è finito, quindi ecco una nuova letterina di Tradurama. Dentro ci sono:
· nessun consiglio di lettura (e un rant),
· un problema di traduzione (che forse non è un problema),
· un reminder su Tradurama FEAT. Ada Arduini (+1 spoiler)
Ma andiamo con ordine.
Prima di tutto, grazie
Per prima cosa, ci tengo a ringraziare chi si è iscritto alla letterina di Tradurama, chi l’ha letta, chi l’ha condivisa, chi ha trovato due minuti di tempo per scrivermi in privato, chi mi ha dato fiducia e ha seguito alcuni dei miei consigli di lettura. È un grazie sincero, il mio, perché niente è scontato, soprattutto di questi tempi, considerato che siamo costantemente tempestati da contenuti di ogni tipo. E naturalmente, grazie a chi, qualche giorno fa, ha partecipato all’episodio 0 di Tradurama FEAT. dove Marianna Gennari e io abbiamo parlato di Affamata di Melissa Broder.
A proposito di soldi
Tra qualche giorno, come già sapete, ci (ri)vedremo su Zoom per il primo vero Tradurama FEAT. Ada Arduini dedicato a Margo ha problemi di soldi di Rufi Thorpe, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri.
Mentre leggevo il romanzo, mi è tornato in mente un pezzo di Ann Bauer che ho tradotto una decina d’anni fa per Abbiamo le prove (un bel progetto ideato da Violetta Bellocchio che magari qualcuno di voi ricorda). Della mia traduzione non rimane traccia online, ma qui c’è l’originale, in inglese. È un pezzo che pur avendo ormai dieci anni abbondanti è ancora attualissimo. Purtroppo.
Magari mi sbaglio, forse perché la mia esperienza – e di conseguenza la mia percezione – è limitata, ma mi sembra che i soldi siano un argomento tabù solo nell’ambito dell’editoria o, più in generale, della cultura – poi, vabbè, qui potremmo aprire una parentesi infinita, partendo dalla domanda: l’editoria è cultura? ma passerei oltre. Dicevo, in editoria i soldi sono da sempre – ma spero non per sempre – un argomento tabù. E chi osa parlarne viene guardato quasi con riprovazione, considerato avido, venale.
Io non penso di essere avida o venale, ma mi definisco spesso una mercenaria dell’editoria, un po’ per scherzo e un po’ seriamente. Tradurre romanzi è il mio lavoro e questo vuol dire che devo camparci. Il che significa che non solo non posso (e non voglio) tradurre gratis (o per due spicci), ma che quando una CE mi contatta per offrirmi un libro, prima di accettare, devo farmi i conti in tasca.
La matematica non sarà mai il mio mestiere
Tradurre mi ha insegnato a fare di conto. Ho dovuto imparare tutta una serie di cose, per esempio quante cartelle finite riesco a fare in un mese, quanti soldi mi servono per sopravvivere e far fronte a eventuali emergenze (la lavatrice che muore dall’oggi al domani, gli occhiali da cambiare, le sedute di fisioterapia, quel paio di scarpe che, solo a guardarle, mi vengono gli occhi a cuoricino, e altre amenità): insomma, cose molto terra-terra. Se non avessi imparato a fare di conto, probabilmente avrei accettato di tradurre quel libro che mi sembrava così interessate e per il quale mi hanno offerto 13€ a cartella, o forse avrei detto di sì a chi mi ha chiesto di coordinare un gruppo di lettura in presenza con cadenza mensile, oppure, chissà, avrei proposto alle mie colleghe di partecipare a Tradurama FEAT. gratis. E per carità, in passato, quando ero più giovane e sprovveduta, ho accettato tariffe indecorose, mi sono lasciata coinvolgere in iniziative che mi sembravano entusiasmanti, e io stessa ho imbarcato gente in progetti a budget zero. Adesso, però, sono una mercenaria, quindi quei tempi sono finiti.
I conti della serva
Partecipare a Tradurama FEAT. costa 5€. L’incasso viene diviso tra me e la traduttrice perché entrambe dedichiamo tempo a preparare l’incontro: leggiamo o rileggiamo il libro di cui parleremo, discutiamo degli argomenti che ci piacerebbe affrontare, e poi c’è da realizzare le grafichette, rispondere alle email, pagare l’abbonamento a Zoom, eccetera. Se riusciamo a coprire le spese e pure il tempo investito è grasso che cola, sia chiaro. Più che altro è una questione di principio, almeno per me. Non voglio (più) lavorare gratis, quindi l’idea di chiedere a qualcuno di lavorare gratis non mi passa nemmeno per l’anticamera del cervello.
Nessun consiglio di lettura (e un rant)
Dopo lunghe tribolazioni, ho ricominciato a leggere, anche se a ritmi blandi, ma va bene così. E naturalmente ho anche ricominciato ad abbandonare i libri brutti o inutili. Gli unici due che ho finito (e che mi sono piaciuti, bella per me) non sono ancora usciti neppure in Inghilterra/USA, quindi non ha senso consigliarveli, almeno per il momento. Ed ecco che parte il rant, per il quale vi chiedo scusa in anticipo.
Io odio abbandonare i libri. Li inizio piena di entusiasmo, entusiasmo che novantanove volte su cento comincia a scemare dopo pochi paragrafi per le ragioni più disparate, fino a esaurirsi del tutto. E se arrivata al venti percento di un libro sono già piena rasa, mollo senza alcun rimpianto. Perché la vita è troppo breve eccetera. Però mi accompagna sempre un senso di frustrazione e a volte me la prendo con me stessa: Che polla che sei, ancora ti fai fregare, ancora non hai imparato a scegliere i libri.
A gennaio, ho abbandonato la bellezza di quattro libri. Due pubblicati in Italia e due no. Ho abbandonato il secondo romanzo di un’autrice che all’esordio mi aveva folgorata, perché l’ho trovato forzatamente cervellotico, con una costruzione ingiustificatamente complessa, una scrittura involuta, e pochissima ciccia. E ho abbandonato un romanzo d’esordio spacciato per brillante che, oltre a rivelarsi una noiosa sfilza di luoghi comuni, non mi ha strappato non dico una risata ma neppure mezzo sorriso. E questi sono quelli non pubblicati in Italia. (Trattandosi di sconsigli oltre che di romanzi che con ogni probabilità non approderanno mai sugli scaffali delle nostre librerie, ometto i titoli.) Ho anche abbandonato due libri che invece in Italia sono stati pubblicati: Piranesi di Susanna Clarke (tradotto da Donatella Rizzati per Fazi) e Martire! di Kevin Akbar (tradotto da Chiara Spaziani per La Nave di Teseo).
Piranesi è quanto di più lontano possa esistere dalla mia comfort zone in fatto di libri, perciò quando ho deciso di fare un tentativo, sapevo già a cosa andavo incontro. Perciò sì, in questo caso è stata colpa mia, me la sono cercata.
Martire! invece sembrerebbe proprio un libro nelle mie corde, tanto che avevo già cominciato a leggerlo tempo fa, molto prima che uscisse in Italia. Più o meno a un quarto, però, lo avevo abbandonato, non solo perché all’epoca ero mezza cecata (presbiopia, un problema di noi non più giovanissime, come raccontavo nella letterina di gennaio), ma perché dopo una partenza abbastanza a bomba, è subentrata una sgradevole sensazione di déjà-lu. Mi ha ricordato troppo, o almeno oltre il mio limite di tolleranza, cose già lette – per struttura, voce, riferimenti culturali e via discorrendo,. E siccome la vita è troppo breve eccetera, l’ho abbandonato di nuovo, stavolta a metà.
Vediamo cosa mi riserverà febbraio anche se tra una consegna che incombe e Sanremo, il tempo e la voglia di leggere saranno ai minimi storici.
[Nota: Consiglio il libro che ho letto, quindi in originale se l’ho letto in originale e in traduzione se l’ho letto in traduzione. Se l’ho letto in originale ma esiste una traduzione italiana lo segnalo.]
Un problema di traduzione (che forse non è un problema)
Margo ha problemi di soldi mi ha fatto pensare alla Variabile Rachel di Caroline O’Donoghue, quindi ho deciso di pescare da lì il problema di traduzione. Non è stato facile, perché ho l’impressione che quel libro si sia tradotto da solo, o quasi – ma nessun libro si traduce da solo.
La variabile Rachel è un libro con caratteristiche stilistiche ben precise, e fin da subito, anzi fin da prima di cominciare a tradurlo, mi è stato chiaro che avrei dovuto salvare a tutti i costi due cose: la brillantezza, soprattutto nei dialoghi, e la scorrevolezza. Verso la fine del romanzo – che, tra le varie cose, è un concentrato di riferimenti alla cultura pop – durante una discussione con Rachel, il suo amico James se ne esce così:
‘But you’ll see, pal. These little graces you’ve picked up from your family, from university, they mean something. Hearing “Homer” and knowing when someone doesn’t mean “Simpson”. Knowing what part of the animal paté comes from. It all adds up. It all means something.’
Il problema, ovviamente, era quell’Homer che resta Homer nel caso di Homer Simpson ma diventa Omero nel caso del poeta greco – omonimo in inglese, quindi, ma non in italiano. Se avessi optato per una traduzione letterale, la scorrevolezza sarebbe andata a farsi benedire, perché: Mmm, se qualcuno parla di Omero sai che non si riferisce a Homer Simpson/ai Simpson? Ma per carità, che soluzione è? In italiano, uno si chiama Omero e l’altro Homer. Perciò, di base, mi è stato subito chiaro che quel riferimento avrei dovuto cambiarlo, per evitare al lettore la sensazione di WTF. Solo che dovevo capire come cambiarlo, con cosa sostituire Homer.
La variabile Rachel, dicevo, è un concentrato di riferimenti alla cultura pop, soprattutto musicale e televisiva, con una particolare attenzione alle sit-com. E a me premeva trovare qualcosa che funzionasse come Homer e che quindi mettesse assieme un riferimento alla cultura pop e uno alla cultura “alta” – non apro parentesi, anche se la tentazione è fortissima, perché questa letterina è lunghissima, ma vabbè, se ci sono le virgolette c’è un motivo.
«Ma vedrai, cara mia. I bei modi che hai imparato in famiglia e all’università ti semplificheranno la vita. Se qualcuno parla di Chandler tu lo sai che non si riferisce a Chandler di Friends, ma a Raymond Chandler. E sai da quale parte dell’animale si ricava il paté. Sono tutte cose che ti torneranno utili».
Ci ho impiegato pochissimo a trovare la soluzione. Chandler mi sembrava perfetto: era il nome del personaggio di una sit-com che conoscono pure le pietre e il cognome di uno scrittore piuttosto famoso: cultura pop e cultura “alta”, tv e letteratura, bingo. Qualcuno potrebbe obiettare che non è una traduzione fedele, invece secondo me è una traduzione più che fedele, perché risponde all’unica domanda che ha senso farsi quando si traduce narrativa, ovvero: come l’avrebbe detta questa cosa, se avesse scritto il libro direttamente in italiano?
[Il brano è tratto da La variabile Rachel di Caroline O’Donoghue, pubblicato da NN.]
Tradurama FEAT. (reminder + spoiler)
Il 12/02 alle 18h30, Ada Arduini (traduttrice, tra gli altri, di Liz Moore e Hernan Diaz) ci parlerà di Margo ha problemi di soldi di Rufi Thorpe.
Per info e iscrizioni (i posti sono limitati, il costo è 5€): feat@tradurama.it
La prossima ospite di Tradurama FEAT. sarà Gioia Guerzoni che ci racconterà Orbital (vincitore del Booker Prize, mica pizza e fichi) di Samantha Harvey, che ha tradotto in italiano per NN. L’appuntamento è per il 14/03 alle 19h. Stay tuned!
Buone letture e al mese prossimo con una nuova letterina!
Adoro le soluzioni che trovi ai problemi di traduzione e vorrei leggere Martire! Ho sentito pareri contrastanti e sono curiosa di farmi la mia opinione.
Quanto mi piace leggere le soluzioni ai tuoi problemi di traduzione! Grazie per questa nuova letterina :)